Parliamo di Potere – con Marco Tortoriello

Intervista a Marco Tortoriello, autore prefazione Power di Jeffrey Pfeffer 


Marco Tortoriello è Full Professor del Dipartimento di Management e Tecnologia presso l’Università Bocconi. Dal gennaio 2017 al dicembre 2020, è stato Associate Dean of Master Division di SDA Bocconi. Le sue ricerche si concentrano su tre aree principali: informal networks, knowledge sharing e innovation.

 


Le dinamiche di potere in azienda sono le stesse delle altre organizzazioni o ci sono elementi caratterizzanti e diversi?


Le dinamiche di potere in azienda sono simili a quelle osservate in altre organizzazioni. Riuscire ad avere potere e influenza sulle decisioni é un obiettivo connaturato a qualsiasi attività umana, pertanto le aziende non fanno eccezione. Quello che cambia rispetto ad altre organizzazioni come partiti politici, sindacati, chiesa, etc. é che in azienda c’é un po’ più di circospezione e cautela nel suo utilizzo e c’é, soprattutto, lo schermo della competenza e dei risultati ottenuti che a volte é utilizzato per giustificare chi arriva ad occupare certe posizioni e chi no. Tuttavia, le dinamiche di potere, come in ogni organizzazione, hanno vita propria e non rispondono in maniera perfetta a criteri oggettivi e misurabili.

 

Come si rapportano queste dinamiche fisiologiche con gli interessi familiari che connotano la maggior parte delle imprese italiane?


C’é una dimensione ulteriore, parallela, che é il bisogno di bilanciare interessi aziendali con interessi familiari. A volte questi interessi convergono naturalmente, a volte non convergono perfettamente. In questo secondo caso, é importante sapere mediare fra questi due mondi e cercare di evitare che uno prenda il sopravvento sull’altro. Essere in grado di mediare fra interessi confliggenti é, in se stessa, una forma molto importante di potere.

 

Visto che tante aziende italiane operano all’estero, oppure sono partecipate da investitori esteri, c’è qualche differenza tra la gestione del potere in azienda in Italia e la gestione del potere in azienda all’estero?


Non direi da un punto di vista sostanziale. Al limite é una questione di stile di gestione del potere. Un po’ più diretta da noi, un po’ più sottile e indiretta all’estero (mi riferisco qui in particolare al mondo anglosassone). È comunque difficile generalizzare, l’estero sono tante cose diverse, e diverse culture nazionali comportano orientamenti che danno sfumature diverse all’utilizzo del potere. Ma ripeto, si tratta di sfumature, non di cose che sovvertono il modo in cui il potere é percepito e utilizzato in ambito professionale.

 

Quanto sono pronti gli studenti che entrano nel mondo del lavoro ad affrontare le dinamiche di potere? Sono sufficienti i corsi sulla leadership?


I corsi sulla leadership sono certamente necessari per aiutare gli studenti di management a capire come leggere e interpretare alcuni fenomeni che accadono nelle organizzazioni, ma non sono sufficienti. Anzi, a volte possono essere addirittura fuorvianti se si tende a dare della leadership una visione buonista ed inclusiva ad ogni costo. La leadership ottenuta sul campo é sempre il risultato di una composizione (più o meno riuscita, più o meno stabile, più o meno gentile) di orientamenti e visioni del mondo diversi. Capire da dove viene, richiede l’abilità di leggere e interpretare il panorama “politico” che esiste in quell’organizzazione, ed identificare le forze che hanno portato ad emergere quella leadership. A volte, nei nostri corsi di leadership si tende a banalizzare il processo, o a non dare il giusto peso alla conflittualità sottostante. Per esempio, non sappiamo mai che ne è stato dei non-leaders, cioè di quelle persone in corsa per la posizione di leadership, che alla fine non ce la fanno. Come è successo?  Dove hanno sbagliato? Che cosa ha fatto di diverso da loro il leader che invece ce l’ha fatta?
Sono domande scomode, ma fondamentali per avere una visione più realistica del fenomeno, anche se potrebbero far emergere elementi che confliggono con la versione e la retorica “buonista” della leadership. Come ci insegna Pfeffer dalle pagine del suo libro, un conto è il mondo delle organizzazioni come ci piace vederlo, o come vorremmo che fosse, un conto è come realmente è. Ed è da questa realtà che bisogna partire, a prescindere da quanto ci piaccia o sia in linea con le nostre attese. Questo però è un passo fondamentale, perché se alla fine dell’analisi ci accorgiamo che il processo per arrivare ad avere una posizione di leadership non ci piace, non ci sembra etico, trasparente, corretto, o in linea con le nostre aspirazioni, capire meglio questi processi è il primo passo per provare a modificarli e migliorarli.

 

Nel mondo del management si parla sempre più spesso di risultati e come misurarli: il raggiungimento degli obiettivi è un elemento sufficiente per ottenere o mantenere il potere?


È un elemento importante, ma la maggior parte delle volte non è dirimente. Prendiamo due manager che lavorano nella stessa organizzazione e sono in tutto e per tutto uguali: età, gender, esperienza, educazione, orientamento religioso, status socio economico, track-record, risorse a disposizione etc. La logica vorrebbe che, andando avanti, avessero le stesse opportunità e gli stessi successi professionali, ma non è e non sarà mai così. Chi raggiungerà risultati migliori, lo farà grazie ad una migliore sensibilità e capacità di leggere le dinamiche di potere che esistono nell’organizzazione, navigandole evitando gli errori evitabili, e sfruttando le opportunità che queste dinamiche via via offrirano. A parità di condizioni, è questo che fa la differenza.

 

Rispetto all’apparente cinismo del libro, ci sono modalità indolore – per noi e per gli altri – per ottenere e conservare il potere?


Non considererei il libro necessariamente come cinico, nemmeno in apparenza. Il cinismo è figlio della frustrazione che deriva dell’impossibilità di cambiare una situazione che non ci piace. Il libro di Pfeffer, invece, ci offre una chiave di lettura realista di come stanno le cose, e ci dice che abbiamo due strade di fronte a noi: diventare cinici, accettando l’impossibilità  di cambiare questo stato di cose, oppure immergersi fino al ginocchio nella realtà che ci troviamo di fronte che, parafrasando Oscar Wild, raramente è pura e mai semplice, e provare piano piano a cambiarla e migliorarla.

 

Conquistare il potere significa infrangere delle regole o rispettarle?


Il potere si ottiene sfruttando al massimo tutti i gradi di libertà che le regole ci lasciano.  Rompere o sovvertire le regole per prendersi il potere, non è una modalità di azione che mi sento di raccomandare. Creerebbe un pericoloso precedente, e soprattutto non metterebbe al riparo da azioni simili nel tentativo, da parte di chi l’ha perso, di riconquistare il potere. Ma se una regola, una norma di comportamento, una modalità di fare le cose è sbagliata o crea distorsioni, è importante impegnarsi per riuscire a cambiarla o migliorarla. Ma per fare ciò ci vuole potere. Ed è per questo che il libro di Pfeffer è una lettura fondamentale per chiunque voglia impegnarsi a migliorare le cose, perché ci insegna come mai alcune persone hanno il potere ed altre no.

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Le persone hanno bisogno di acquisire potere e di imparare a farlo

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