Competizione e risultati

Competizione

Competizione e competenze non vanno d’accordo.
Per le donne in azienda, stridono come un tailleur sulle sneaker.

E’ ciò che emerge da un recente studio condotto presso l’Università di Stanford: la competizione segna una differenza non trascurabile nelle performance dei soggetti, a seconda del sesso di appartenenza.

Se uomini e donne vengono valutati singolarmente, i risultati ottenuti da ambo i generi sono bilanciati.
Ma se viene comunicato ai partecipanti che le risposte saranno messe in graduatoria, le performance degli uomini aumentano notevolmente, di pari passo con una diminuzione delle prestazioni femminili.

Una forbice complessiva che affossa i punteggi e taglia le gambe alla carriera di molte potenziali manager.

L’uomo – e qui è semplice da capire – è competitivo: sapere che l’auto aziendale può essere assegnata a lui, o al collega che ha meno gavetta e più piaggeria, fa la differenza eccome.

Del resto l’uomo è ancestralmente abituato a ricercare l’eccellenza: il maschio deve farsi scegliere – tra tanti avversari – dalla donna, a sua volta in cerca del più forte esemplare che garantisca la discendenza.

Ma perché le donne dovrebbero essere meno abili nel mostrare le proprie capacità?

Lo studio attribuisce la ragione a un’attenzione tipicamente femminile: non volere penalizzare gli altri.
Cortesia? Premura? Parliamone.

Un posizionamento alto nei punteggi significa – e tutte lo sanno – un aumento retributivo, una maggiore flessibilità su gli orari: le donne non sono meno sensibili.

Conosco colleghe che sono più competitive di Usai Bolt a tre secondi dalla partenza.
Farebbero lo sgambetto per non finire in fondo alla lista.

Forse la vera (o comunque concomitante) ragione è che – sapendo della competizione – durante i test/assesment vanno in panico.

Troppa sensibilità insomma, ma verso se stesse, non verso gli altri.
Un’ipotesi che sfata il mito della donna angelo altruista e che forse per questo non piace a tutti.

Anche perché – rispetto alla prima ipotesi, mostra una debolezza (ansia) anziché un pregio (carità).

Ciò che non piace alle aziende invece è eliminare la competizione: genera produttività, nuove idee, tiene più svegli del caffè ordinato giù al bar. Grasso che cola per tutti.

Allora – per non fare torti e penalizzare ingiustamente – meglio modificare i criteri di valutazione.

Ad esempio tacendo il fatto di voler classificare i risultati di un test valutativo: ‘Oggi il responsabile HR ha dato un questionario per il monitoraggio delle competenze; così, giusto per fare qualcosa’.

Oppure inventarsi altri metodi di stima che tengano conto delle anche delle differenze di genere.
Nessun favoritismo, per carità.

 

Marcella Manghi

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