Pratiche dal metodo sociocratico: il punto di equilibrio fra gruppo e persona.

metodo sociocratico

Era la presentazione di un libro, online, che mi sembrava di aver condotto con una certa disinvoltura traducendo faticosamente, a mo’ di intervista a bordo campo, gli interventi in inglese dell’autrice e di rimando le domande in italiano che arrivavano dagli altri panelist. Appena terminato l’evento, mi chiama un’amica per farmi i complimenti ma anche per osservare come avessi tagliato un po’ troppo corto nella parte finale di Q&A. “Bisogna saper sostenere un poco il silenzio; sovente chi non prende la parola subito non lo fa perché sta pensando e chi pensa è facile che abbia qualcosa di interessante da portare alla discussione”. Touché. Nella mia ansia di riempire i vuoti, non avevo lasciato lo spazio, il tempo, per far emergere le voci più significative.

È una metafora di quel che succede in moltissimi, nella maggior parte dei “formati” che usiamo per riunirci e discutere e decidere con altre persone. Sono troppo spesso spazi agonistici in cui “vince” chi ha più potere, più prontezza, più parlantina, più faccia tosta. E queste insiemistiche hanno una sovrapposizione diciamo per lo meno variabile con l’apporto effettivo che queste persone di volta in volta hanno da dare alla discussione. Intendiamoci, uno spazio agonistico non è necessariamente negativo per lo sviluppo di un discorso in una comunità. Il pitch o il discorso del politico (pensate allo spazio pubblico della democrazia antica se siete affaticati dal teatrino dell’attualità) hanno certamente una loro dignità. Vi racconto la mia idea, la “spingo” con le mie arti retoriche, vi porto in uno spazio “teatrale” antico quanto l’umanità. Niente di male in sé, è un registro possibile, un formato preciso.

Il problema è quando questa diventa l’unica, o la prevalente, modalità che una collettività o una organizzazione hanno per decidere. Il problema è che non tutto nella vita di un team, di un’organizzazione, di una comunità può passare dal “teatro” della vendita. Il problema è che a volte in un’organizzazione, per arrivare a una buona decisione, abbiamo bisogno di neutralizzare le dinamiche di potere in atto. È in parte un fatto culturale. Nel bellissimo The Dawn of Everything gli autori raccontano del capo Wendat (una tribù di indiani Uroni nel nord America) che a cavallo fra Seicento e Settecento viene a contatto con i Francesi, viaggia in Europa, capisce e interpreta la cultura che poi si sarebbe definita “occidentale”. Questo osservatore è colpito dall’incapacità degli invasori di avere una discussione egualitaria, dalla costante prevaricazione in atto in qualsiasi confronto anche fra connazionali, fino a rappresentare questa condizione in termini di una sorta di analfabetismo. “Non sapete parlare, non sapete ascoltare”.

Molte voci e una canzone: good enough for now, safe enough to try

La sociocrazia, di cui Molte voci, una canzone è un manuale completo e azionabile, insegna anzitutto a parlare, ad ascoltare, per arrivare a migliori decisioni di team; offre un articolato set di pratiche per “sostenere” lo spazio che serve ad un’organizzazione per illuminare il problema sul tavolo da tutti i punti di vista possibili, attraverso la visione imprescindibile e per definizione “unica” di ciascun partecipante alla riunione. Questa pratica restituisce ai temi affrontati una tridimensionalità che difficilmente l’arte della vendita, per quanto bravo sia il venditore, può rappresentare. È una pratica che sfrutta in pieno il potenziale dell’intelligenza collettiva e fa dell’inclusione un efficace, e sorprendentemente snello, strumento organizzativo.

In verità, lo si capisce anche solo sfogliando il libro, si tratta di un set articolato di pratiche, un’intera “tecnologia sociale”, al cui centro si trova anche un modo specifico di prendere le decisioni, chiamato assenso (in inglese consent), o decisione integrativa, una via alternativa a quelle che, tradizionalmente e intuitivamente, associamo al processo decisionale:  la via autocratica (chi ha potere decide per tutti, magari condividendo le informazioni, ascoltando, concertando ma alla fine facendo valere la sua autorità), la via democratica (la regola della maggioranza che siamo abituati a vedere all’opera in molti contesti collettivi, dalla politica alle riunioni condominiali), la via del consenso (una strada lenta e ardua quest’ultima che costruisce l’accordo degli individui che compongono un gruppo). Tutte queste forme decisionali hanno un loro significato e una loro efficacia. Possono essere adatte al contesto preciso in cui vengono impiegate. Ma non lo sono sempre e soprattutto non esauriscono lo spettro delle possibilità. Per alcune decisioni, soprattutto quelle che riguardano le regole del gioco dell’organizzazione, la sociocrazia esplora la strada dell’assenso che ha le sue radici in una lontana eredità quacchera che meriterebbe di essere esplorata e, forse indirettamente, nelle tradizioni dei nativi americani citate prima.

La filosofia che sta alla base di questo metodo decisionale è semplice: tutti i punti di vista di un gruppo di persone sono preziosi per arrivare a una buona decisione collettiva; la diversità che ciascuno porta con sé può svelare dimensioni inaspettate di un problema (o di un’opportunità) che erano sfuggite anche al più esperto del team (o che gli sono sfuggite proprio perché è il più esperto). Il principio che lavora qui viene definito dagli autori “campo di tolleranza” che, per la persona che partecipa al processo decisionale, rappresenta un’area molto più vasta della “preferenza personale”, quella su cui lavora invece la tradizionale ricerca del consenso. La domanda non è “sei d’accordo?”. La domanda di fronte a una proposta, alla fine di un processo di chiarimenti e integrazioni, è “hai obiezioni?”, “vedi un pericolo per il nostro scopo se andiamo in questa direzione?”. La proposta può non piacermi, posso non essere d’accordo, ma non obietto fino a che rimane all’interno del mio campo di tolleranza. “L’assenso equilibra gruppo e persona”. Questa metodologia, altamente integrativa ma infinitamente più rapida della ricerca del consenso, è adatta a un lavoro progressivo di un team o di un’organizzazione, per orientare i suoi passi prendendo iniziative “sufficientemente buone per ora, sufficientemente sicure per essere provate”, il celebre good enough for now, safe enough to try che rappresenta uno degli slogan operativi della pratica sociocratica.

Naturalmente c’è molto di più nelle pagine di Molte voci, una canzone. C’è tutta la tecnologia sociale che dà vita ai famosi cerchi sociocratici che compongono organigrammi totalmente alternativi al modello ancora oggi dominante nelle imprese. Gli autori però avvisano che di questa grande architettura possiamo prendere quel che ci serve davvero (“ma più ne prendete meglio è”). Molte di queste pratiche possono essere portate in contesti organizzativi tradizionali e gerarchici con straordinari effetti di efficacia e partecipazione. Si iscrivono in un preciso orizzonte valoriale che questo libro restituisce nella sua integralità, nascono da un approccio sistemico (il fondatore del metodo sociocratico Gerard Endenburg era un ingegnere esperto di cibernetica) ma possono vivere di vita propria, “microcosmi del cambiamento” come dice Otto Scharmer, forme e formati che possono svolgersi inizialmente su piccola scala, “punti di leva” per muovere il sistema.

 

*L’immagine di apertura è di Robert Mangold (Ring Image A, B, C)

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Molte Voci, Una Canzone
Equità decisionale,
trasparenza organizzativa,
collaborazione efficace.

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