Del mezzo e del fine, e viceversa

fine

Il fine è il punto estremo di un viaggio, il termine di qualcosa, il suo compimento o riuscita.

Con questa parola indichiamo quindi lo scopo, l’intenzione, o il proposito di ciò che facciamo.
Si tratta di qualcosa di soggettivo, sia che si tratti di una persona che di un gruppo di persone.

Il mezzo invece ci fa pensare alla parte centrale, al punto medio di qualcosa.
Indica quindi ciò che serve, che usiamo o che facciamo per conseguire un risultato e raggiungere un determinato fine.

Vogliamo qualcosa quindi mettiamo in atto processi, creiamo sistemi e strutture, usiamo metodi e strumenti, facciamo scelte e azioni per ottenerlo.

I mezzi servono, a livello individuale e collettivo, per raggiungere il fine.
Entrambi sono però soggettivi, perché quello che per qualcuno è un fine, per qualcun altro può essere un mezzo, e viceversa.

Il che è una cosa meravigliosa perché permette di far nascere collaborazioni che nutrono e gratificano tutti.

Il problema nasce quando li confondiamo.

Nel corso della mia vita mi è capitato di convincermi che il mezzo fosse il fine, e almeno una volta l’ho vissuto in un’organizzazione.

Una confusione che causa smarrimento, tensioni e frustrazioni.

In genere questo accade quando il mezzo usato per raggiungere il fine funziona molto bene.
Così bene da creare una tale gratificazione al momento, che il fine viene perso di vista.

Progressivamente, attenzione ed energia si spostano interamente sul mezzo, finché ci si convince che a far funzionare bene il mezzo sia il fine.

A volte ci innamoriamo proprio del mezzo, e finiamo col convincerci che sia il fine.
Oppure abbiamo così poca chiarezza del secondo, da mettere la nostra attenzione sull’unica cosa che riusciamo a vedere: il mezzo, appunto.

Inoltre, il fine è qualcosa di elusivo.

È allo stesso tempo destinazione e desiderio di mettersi in movimento per raggiungerla.

Questa sua natura vaga mette in difficoltà la nostra mente razionale che ama le cose chiare e ben delimitate.
Cose che possiamo collocare e misurare, come spesso sono i mezzi che usiamo, appunto, e che finiscono con il prendere il sopravvento.

Quando questo accade, il mezzo si trasforma in una prigione.

Persone che rimangono intrappolate in un lavoro o in ruolo perché “gli viene bene”, aziende bloccate in strutture perché funzionano (che poi, a ben vedere, non funzionano).

Quasi sempre è solo un’illusione destinata prima o poi a cadere, perché senza fine, il mezzo è vuoto e fragile, una costruzione senza fondamento pronta a cadere al primo scossone.

Il primo passo per evitare di trasformare il mezzo in un fine – e rimanerne intrappolati-, è fare chiarezza sul secondo.
Ricordandoci poi che il fine non lo definiamo ma ci si rivela.
Non siamo noi a trovarlo, ci trova lui.
E noi, per farci trovare, dobbiamo aprirci ed evitare di lasciarci imprigionare dai mezzi.

 

Fabio Salvadori

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