Generazione spontanea

Come nasce una casa editrice? Spontaneamente. Risposta assurda, di cui mi scuso immediatamente, ma vera per lo meno nel caso di Ayros, comparsa fra le pieghe delle conversazioni con Pietro Catania nel concitato immobilismo del primo lockdown.

L’assurdità della risposta, però, risulta ancora più evidente se si osserva con il giusto sconcerto il nostro anno di fondazione, A.D. 2020, una data anche facile da ricordare per gli studenti del futuro, quelle date tonde e piene che ti permettono di collocare nel tempo un evento epocale, una crisi a partire da cui leggere e interpretare tutto quel che è accaduto dopo.

Ma forse non serve nemmeno lo stravolgimento globale provocato dalla pandemia a dimostrare la bizzarria della generazione spontanea di una casa editrice in questi tempi. Bastano anni, ormai decenni, di conclamata crisi dell’industria del libro, della lettura, della carta prima, degli ebook poi, delle librerie, del romanzo, della poesia, del libro d’arte, della saggistica colta, di quella ignorante, della varia e della simile, giù fino ai libri dei comici e dei personaggi televisivi, oggi degli influencer e dei tiktoker.

Si dirà che è da pazzi avviare spontaneamente, varrebbe a dire volontariamente, un’attività editoriale nell’annus horribilis dell’economia mondiale, in un settore in crisi cronica (che però ha “tenuto bene”, fa dire la stabilità di chi ha toccato il fondo…). Ma questo abbiamo fatto, questo siamo tenuti a spiegare.

Dunque, cosa mai si saranno detti questo Pietro e questo Joshua nelle loro conversazioni dai terrazzi o terrazzini delle rispettive residenze, nel rispetto del DPCM sorgente, progenitore di tutti quelli che da allora hanno normato fantasiosamente le coordinate spazio-temporali delle nostre esistenze?

Le conversazioni sono sorte inevitabilmente dalle reciproche traiettorie professionali: Pietro consulente esperto di sviluppo organizzativo con formazione ed esperienza internazionale, Joshua le cui idee dopo 25 anni di professione editoriale prendono vita in forma di libro.

La quarantena ci aveva sorpresi entrambi in un periodo di transizione. Il recente passato ci aveva lasciato dei progetti editoriali sospesi, che puntualmente troverete nel nascente catalogo di Ayros, ma il vero stimolo a confrontarsi ruotava intorno alla convinzione che la pandemia fosse destinata ad allargare progressivamente la riflessione su un ambito di cui entrambi ci occupavamo (Pietro da molto più tempo di me): il modo in cui le persone collaborano, convergendo verso un comune obiettivo.

Lo sconcerto di quelle settimane e l’esperimento collettivo di lavoro a distanza che ne è seguito e che stiamo tuttora vivendo, avrebbero catalizzato energie cognitive in maniera inedita, avrebbero spinto le persone ad osservare il proprio lavoro ed osservarsi, le avrebbero rese più riflessive sulle condizioni, i presupposti e le finalità delle proprie vite lavorative.

Lo spazio specifico di una disciplina accademica – lo sviluppo organizzativo – e di ambiti professionali come le risorse umane, stava per ampliarsi e anche mescolarsi con altri temi – il benessere della persona, la sostenibilità dell’attività imprenditoriale, il valore condiviso, la formazione continua, l’intreccio del lavoro umano con l’infrastruttura tecnologica, l’autonomia come chiave dell’innovazione, l’imperativo di un alto scopo per la sopravvivenza delle imprese, la centralità dell’esperienza delle persone nei mercati contemporanei, la servitizzazione delle produzioni industriali…

Come lavorare e per quale fine farlo, stava per diventare un argomento di attualità. È lo è effettivamente diventato.

Il confuso dibattito pubblico sullo smart working – così chiamato in Italia forse con inconsapevole intento augurale – che in breve tempo seguì quelle conversazioni, consolidò la sensazione che i temi tipici della letteratura manageriale e di un’editoria tecnico-professionale, insieme troppo specialistica e abbondante, stavano guadagnando il centro scena, ma avevano bisogno di maggiori e più solide connessioni con le sfide reali di organizzazioni e persone e del contesto sociale e culturale in cui sono immerse.

Come l’impresa da tempo non poteva più essere concepita, e gestita, come un’entità autonoma in un astratto spazio competitivo, così il Management, come “genere letterario”, non poteva più essere pura espressione di competenze tecniche e specialistiche.

Un cambiamento radicale era in atto, che la pandemia avrebbe accelerato, ed Ayros – la creatura però non aveva ancora nome – avrebbe dovuto ospitarlo, rappresentarlo, raccontarlo.

Continua…

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